Alla fine della pandemia si è inneggiato al ritorno alla “normalità”, ma ammesso e non concesso, la normalità è tornare a lasciarsi vivere avulsi dai problemi reali.
La pandemia ha cercato di insegnarci che si può vivere diversamente, ma la “normalità” è continuare a demonizzare lo sviluppo tecnologico.
E’ di oggi la disposizione definitiva da parte del Ministero della Salute, perché le ricette mediche possano essere gestite online, cosa che io faccio abitualmente girando la mail alla farmacia che mi prepara il farmaco.
Ma ancora si discute sullo smart working, quando sarebbe una buona soluzione ai cambiamenti climatici, riducendo l’eccesso di CO2 provocato dagli eccessivi spostamenti.
Ma ancora di più, è di questi giorni la rivolta degli studenti universitari fuori sede, contro gli affitti elevati.
Semplice la soluzione: basta tornare alle lezioni online, in streaming, facendo rimanere a casa gli studenti e facendoli spostare solo per sostenere gli esami.
Risparmio per le famiglie, per le università e lo Stato.
E per quei pochi che dovessero avere problemi di collegamento, lo Stato potrebbe intervenire con accordi con i gestori telefonici per coprire le aree non coperte, magari ricorrendo al PNRR che l’Unione Europea ci ha concesso per modernizzare il paese e quindi anche attraverso la digitalizzazione.
Le università potrebbero offrire computer in comodato d’uso agli studenti, sebbene il risparmio su logistica in trasferta permetterebbe di investire una piccola cifra per attrezzarsi tecnologicamente, e i Comuni potrebbero mettere a disposizione degli spazi con internet wi-fi.
Ma se si pubblicizza e osanna il 5G come uno strumento in grado di far operare attraverso un robot, anche un chirurgo dall’altra parte del mondo, che problema ci sarebbe a far partecipare gli studenti anche a esercitazioni pratiche con un visore a realtà aumentata?
Le università non dovrebbero essere punte d’eccellenza sociale e dei laboratori all’avanguardia?